Lazzari Costantino

Data pubblicazione: Apr 12, 2017 12:19:57 AM

[1857 - 1927]

Partito Operaio Italiano, fondatori della Camera del Lavoro di Milano, rappresentante degli impiegati, socialista, deputato.

 

Di origine contadina da parte del padre Luigi e di stirpe nobiliare secondo quanto afferma il Toscani, da parte della madre, Anna Grandi, Lazzari trascorse a Cremona, dov’era nato, il 1 gennaio 1857, i primi anni della sua vita in casa dei nonni materni, da cui fu allevato. Traferitosi con i nonni a Milano frequentò la scuola tecnica, dove ebbe come compagno E.Dalbesio, che lo iniziò alla letteratura, sia pure disordinata, di pubblicazioni scolastiche. Pur avendo iniziato a lavorare come garzone di magazzino, presso la ditta De Giorgi, proseguì gli studi e ottenne il diploma di maestro e la patente di segretario comunale; contemporaneamente frequentò per circa tre anni l’accademia di Brera, dedicandosi con passione allo studio della figura, costretto successivamente ad abbandonare tali studi per la concomitanza dell’orario di lavoro con quello dei corsi. Frequentò quindi una scuola serale di lingue, dove apprese il francese e iniziò lo studio dell’inglese e del tedesco.  Proseguì anche nella lettura di opere sulla questione sociale e fra gli autori che più lo interessano L ricordo Guesde, B. Malon, Lafargue, M. Bakunin, Kropotkin, Herzen.

L’inizio dell’attività politica del non più giovanissimo L. coincise con l’iscrizione, promossa dalle sue simpatie per le correnti repubblicane e radicali. Al Circolo operaio milanese, sorto allora con scopi ricreativi e di studio, sotto l’egida del radicale Consolato operaio milanese, ma ben presto dominato dalle personalità di E. Bignami e di Osvaldo Gnocchi Viani, che operavano per rendere concreta l’esigenza della formazione di un partito degli operai. Al circolo operaio L. conobbe molti dei compagni di lotta degli anni successivi, fra cui Croce, Casati, Kerbs, Dante. Ancora incerto sulla via da seguire in mezzo alle polemiche che dilaniavano le correnti dell’estrema sinistra e del nascente movimento operaio socialista, nell’estate del 1882 L. si recò in Svizzera, attraverso il San Gottardo, a cavallo del suo velocipede per incontrare E. Reclus. E il risultato fu, forse per reazione che L. si convinse che solo il lavoro concreto di lotta, di organizzazione, di resistenza di ogni giorno avrebbe condotto i lavoratori a instaurare il “socialismo” da lui definito, ancora nel 1926 come “quell’insieme di rapporti sociali che possono assicurare al genere umano uno stato di giustizia e di uguaglianza fra tutti i suoi membri”. Infine un avvenimento contingente – la partecipazione di L. a una manifestazione a favore di Oberdan, tenutasi a Milano nel dicembre del 1882, seguita dal suo arresto, senza conseguenze sul piano penale, ma che gli procurò la perdita del lavoro – lo spinse definitivamente sulla via dell’azione politica a favore delle classi diseredate.

Rientrato a Milano, diede la sua piena adesione alla nascente corrente operaista, partecipò intensamente alla vita della Lega dei figli del lavoro e fu tra i fondatori, nel luglio 1889, del periodico Il fascio operaio, organo dell’operaismo lombardo, che si stampava nella piccola tipografia da lui impiantata in via Valpetrosa. Attivo propagandista e abile organizzatore, L. percorse varie zone della Lombardia e del Piemonte, diffondendo i concetti di lotta economica, da attuarsi tramite la resistenza e gli scioperi, e di organizzazione autonoma dei lavoratori, visti come gli unici metodi validi per giungere, in un futuro più o meno lontano, alla collettivizzazione della terra e dei mezzi di produzione, cioè al socialismo.

Fautore della necessità della costituzione di un partito esclusivamente operaio, a carattere, come si diceva allora, economico e non politico, unitamente ai compagni operaisti milanesi propagandò le sue idee sulle colonne del Fascio operaio, al quale collaborò sino alla cessazione delle pubblicazione, avvenuta nel 1890, e difese validamente le sue tesi nel III, IV e V Congresso della Confederazione operaia lombarda. In effetti, in questo ultimo congresso gli ordine del giorno presentati da Lazzari sia per il rifiuto della regolamentazione legislativa dell’arbitrato, sia a favore della legittimità della resistenza e degli scioperi, ottennero la maggioranza. Subito dopo questa prima vittoria in seno alla Confederazione operaia lombarda, il gruppo di L. costituì nell’aprile-maggio 1885 il POI, fondato sul principio della lotta di classe inteso soprattutto in senso economicista ed esclusivista. L. fu eletto membro del Comitato centrale del partito. Al II Congresso del POI (1885) propose, ottenendo la quasi unanimità la fusione della COL col POI sulla base dello statuto di quest’ultimo; ribadì le già note posizioni sulla necessità e sui metodi della lotta economica “del lavoro contro il capitale” auspicando la diffusione della resistenza nelle campagne; prese infine posizione a favore della partecipazione del partito alla vita “pubblica” con un ordine del giorno, approvato dai congressisti , in cui puntualizzava come la partecipazione dovesse avvenire secondo precisi “criteri di classe” e lasciava alle sezioni del partito ampia libertà di prendere parte alle elezioni politiche. Identica apertura nei confronti della lotta elettorale politica L. sostenne nel II Congresso del POI (Pavia 1887) dove, in uno scontro con Croce e Casati, rigettò l’ipotesi che il POI potesse essere tacciato di “parlamentarismo” argomentando che il partito non aveva “alcun programma di governo” e che in questo campo le sezioni godevano della più ampia autonomia. L. del resto si era già presentato candidato per le elezioni politiche della primavera del 1886 nei collegi di Cremona, dove aveva ottenuto il maggior risultato con 3359 voti, Alessandria e Casale, pur essendo la sua una candidatura di protesta.

Nella lotta elettorale del 1886 i più accaniti avversari degli operaisti si erano dimostrati radicali, che non avevano sdegnato sleali metodi di lotta quali la nota accusa cavallottiana di connivenza con la questura e di finanziamento governativo. Contro i radicali si era scagliato L. con una serie di sferzanti articoli, apparsi sulle colonne del Fascio operaio con il titolo la democrazia vile. L’episodio aveva rafforzato la convinzione di L. sulla necessità dell’autonomia del partito operaio e del reciso rifiuto di ogni contaminazione borghese. Era poi sopravvenuto il decreto prefettizio di scioglimento del POI, la chiusura del Fascio operaio e l’arresto dei principali esponenti del partito, fra cui L., Croce, Dante e Casati, sotto l’accusa di “associazione di malfattori”. L. fu condannato a tre mesi di carcere.

In questi anni, molto vivo è in L. l’interesse per il movimento cooperativo e in particolare per le cooperative di produzione, che vede come un potente strumento di emancipazione della classe operaia, purché evitino il pericolo di degenerare in società commerciali di carattere capitalistico. In quest’ottica L. partecipò a tutti i congressi dei cooperatori sin dal 1 ottobre 1886, dove in presenza di influenti personalità, quali L. Luzzatti riuscì a far approvare un suo odg che indicava come compito delle cooperative l’appoggia al “movimento generale di organizzazione e miglioramento della classe lavoratrice”, anche se vide respinte le sue proposte tendenti ad assicurare l’appoggio finanziario delle cooperative agli scioperi. Sul tema delle cooperative L. fu spesso relatore nei congressi del partito operaio. 

Nel IV Congresso del POI (Bologna 1888) dove fu approvato il “programma amministrativo comunale del partito operaio”, elaborato da L. unitamente agli altri membri del Comitato centrale, in cui si riconosceva che “l’intervento del POI nella questione amministrativa comunale è l’espressione della lotta di classe iniziata nella vita pubblica”, L. fu nominato rappresentante del POI al congresso mondiale convocato a Londra per il novembre dalle trade unions. A Londra L. passò una serata a casa di Engels; riferì successivamente sul congresso nelle colonne del Fascio operaio.

Nel maggio del 1889, in seguito agli scioperi agrari avvenuti nell’alto Milanese, zona in cui molto attiva era stata l’azione di propaganda e di organizzazione degli operaisti, i principali esponenti del POI, fra cui Casati, Croce, brando, Cabrini, furono arrestati e trattenuti un mese in carcere, senza che a loro carico fosse formulato alcun capo d’imputazione. Poiché gli arrestati erano i principali redattori del Fascio operaio, il periodico dovette interrompere le pubblicazioni e dopo una breve e stentata ripresa costellata di sequestri, non riapparve che nel marzo del 1890, non più a Milano ma ad Alessandria. Il gruppo dirigente del POI si trovò così privo del principale strumento di coordinazione e direzione del partito e nella disagevole condizione di poter usare solo delle sezioni locali. Questi fatti accelerarono in processo di avvicinamento degli operaisti al gruppo turatiano. Sorse allora, per iniziativa di Filippo Turati, di L., forse il più propenso ad accettare le proposte di Turati e di Casati, la lega socialista milanese. E’ noto come Turati, sempre più in posizione egemone all’interno della lega e coadiuvato dalla costante opera mediatrice di L., la condusse, come dimostra il programma approvato nella primavera del 1891, ad approdare al socialismo “scientifico”, com’era da lui inteso. Nel 1889 L. sposò, con il solo rito civile, una cucitrice di guanto, Giuseppina Manzoli, di provata fede socialista, ma di scarsa salute, che morì nel 1899, senza aver avuto alcun figlio. L. considerò sempre, appunto per la mancanza di figli, questo suo matrimonio un errore, e diversi anni dopo la morte della moglie,

adottò una bambina, resa orfana dal terremoto di Messina.

Al V Congresso del POI (Milano 1890) venne approvata una mozione di L., con cui si stabiliva l’inclusione nello statuto di ogni sezione del partito degli scopi della resistenza e dello sciopero, giungendo così alla definitiva esclusione delle società di mutuo soccorso. L. inoltre si pronunciò a favore della manifestazione del 1 maggio per la conquista delle otto ore lavorative giornaliere e per l’istituzione delle Borse del lavoro, di cui era già tra i più attivi promotori. Nel 1891 infatti fu tra i fondatori della Camera del lavoro di Milano, quale rappresentante della categoria degli impieghi privati.

Al successivo congresso operaio italiano (non più del POI, ma di preparazione del partito dei lavoratori) tenutosi a Milano nell’agosto del 189, L. svolse un’importante opera di mediazione fra Turati e i suoi oppositori, Casati e Cabrini. Era infatti confusamente convinto che dopo dieci anni di attività del POI, anni che avevano portato alla maturazione di una forte coscienza di classe e avevano di molto ampliato la sfera dell’influenza politica del partito diveniva “logico e naturale l’abbandono del carattere particolarista”, che aveva contraddistinto il partito ; ma soprattutto sentiva l’esigenza di “favorire lo sviluppo della forza politica necessaria anche per la difesa contro quella persecuzione che fino allora aveva impedito i loro sforzi”.

La mediazione di L. si svolse quindi più che sulla base di una chiara e precisa convinzione ideale e politica su istanze di carattere sentimentale ed emotivo, da cui discendeva il corollario dell’utilità di “sacrificare il POI” in nome della “concordia e del benessere della massa dei lavoratori”. Sempre in questo congresso, L. tenne una lunga relazione su Posizione e doveri della classe operaia di fronte al militarismo, coronamento dell’intesa opera di propaganda antimilitarista e per il ritiro delle truppe italiane dall’Africa da lui svolta, a partire dal 1887, in numerose conferenze tenute in diverse zone dell’Italia settentrionale non senza diffide, interruzioni ed arresti da parte della polizia. L’odg antimilitarista di L. fu approvato all’unanimità e l’antimilitarismo rimase una salda costante nella sua azione anche nei momenti più cruciali, quali lo scoppio della prima guerra mondiale.

L. fu pure nominato membro della commissione per il programma, cui furono delegate anche le funzioni di comitato centrale provvisorio, insieme a Bertini, Croce, Cattaneo, cremonesi, Maffi e Mozzoni. La commissione aveva il compito di elaborare il programma e lo statuto dei lavoratori, ma riuscì a partorire solo un confuso documento che non poteva dirsi ne radicale, ne operaista, ne socialista. Il documento rielaborato da Turati su pressioni di Antonio Labriola, costituì la base dello statuto del PLI, fondato nel congresso di Genova dell’agosto 1892. In questo congresso l. appoggiò e seguì la linea turatiana, anche se con qualche esitazione dovuta al timore che nella trasformazione del partito operaio in partito socialista si perdesse una parte della base operaia e soprattutto che l’organizzazione di resistenza, amata con l’amore del padre per il figlio, si dissolvesse nell’organizzazione politica.

Al successivo congresso del partito tenutosi a Reggio Emilia nel 1893, L. prese parte attiva ai lavori ribadendo le sue già note posizioni. Fece eccezione un suo odg presentato insieme a G.M. Serratti, sulla questione della tattica da seguirsi in eventuali alleanze con i partiti affini, che aprì uno spiraglio verso combinazioni che non intaccassero i principi e la condotta del partito. In questi anni anche nella discussione del partito “piccolo”. Cioè compatto, omogeneo, socialista, o partito “grande”, l. affiancato da Cabrini, si pronunciò su quest’ultimo inteso come “una grande associazione eterogenea nelle altre parti, omogenea solo nell’intento di emancipazione del lavoro”.

Nel 1893 l. divenne amministratore del giornale milanese La lotta di classe, di cui era già collaboratore. Nel 1894 si presentò candidato per le elezioni politiche nel collegio di Porto Maurizio, ma non risultò eletto. Svolse un’attiva azione di propaganda e solidarietà per il movimento dei lavoratori siciliani, presentando tra l’altro la candidatura di Barbato. Fu tra i promotori della Lega per la libertà, sorta a Milano nel novembre del 1894 come reazione ai provvedimenti “antianarchici” di Crispi, in cui conversero radicali e socialisti.

Insieme ai membri del Comitato centrale del partito fu arrestato e processato, alla fine del 1894, per la solidarietà espressa nei confronti del movimento dei Fasci siciliani e condannato a cinque mesi di confino a Borgotaro. In seguito, mentre già era al confino, la pena gli venne aggravata con tre mesi di reclusione. Contemporaneamente per una questione relativa all’ammanco di 500 lire nella gestione della Lotta di classe, venne licenziato da amministratore. Per questa faccenda riportata alla ribalta, anche in anni successivi nella polemica tra riformisti e intransigenti, rimase in l. un certo astio personale nei confronti di Turati.

Prima della partenza per il confino L. partecipò al congresso di Parma del 1895 dove si pronunciò a favore dell’adesione individuale al partito e alla trasformazione del nome PSLI in PSI. Poco dopo a nome dell’ufficio esecutivo centrale, preparò un documento sulla struttura organizzativa del partito, di cui indicò il perno nei circoli elettorali.

Rientrato malato dal confino a Milano, riuscì a trovare lavoro come commesso viaggiatore della ditta Besana, lavoro che mantenne fino al 1912. Ebbe l’opportunità di viaggiare molto spesso per l’Italia, approfittandone sempre per tenere conferenze di propaganda e allacciare relazioni con i compagni. Rifiutò di partecipare al congresso di Bologna del 1897 in seguito allo sfavorevole verdetto del giurì sulla questione dell’amministrazione della Lotta di classe.

In seguito ai fatti di Milano del 1898 fu arrestato a Camerino come compartecipe degli stessi,

Fu giudicato dal tribunale di guerra di Milano, insieme a Turati, Bissolati, don Albertario, Morgari e altri progressisti e condannato ad un anno di reclusione, che scontò nel carcere di Finalborgo, dove contrasse una forte ulcera gastrica. Uscito di prigione, eletto membro della commissione centrale del PSI, si pronunciò “per necessità di cose” a favore dell’alleanza con democratici, radicali e repubblicani nelle elezioni amministrative di Milano, che si tennero nel 1899. L’appoggio e l’attiva opera di propaganda svolta da L. a favore dei candidati popolari contribuirono alla vittoria elettorale da essi ottenuta. Nel 1900 L. costituì un circolo elettorale socialista per il VI collegio di Milano con l’evidente intenzione di presentarsi come candidato per le imminenti elezioni politiche. Fu candidato politico a Voghera e a Varallo Sesia e non risultò eletto. Nel VI collegio di Milano fu presentato, pare su pressioni di Turati, E Ciccotti e venne eletto. E. Ferri, già in polemica con Turati su metodi di lotta e propaganda, colse l’occasione per prendere le difese di L. sulle colonne dell’Avanti!. Turati rispose con una lettera, in cui riesumava le accuse contro L. per gli ammanchi dell’amministrazione della Lotta di classe. In seguito a ciò L. presentò le proprie dimissioni, accettate dopo lunghe discussioni, dalla commissione esecutiva della federazione socialista milanese. Nonostante ciò e immediatamente dopo l’accettazione delle sue dimissioni, L. tenne numerose conferenze di propaganda in diverse città italiane, conferenze a cui venne dato rilievo anche dai giornali socialisti. Ne certamente L. perse credibilità nei confronti della base operaia del partito: ne è conferma il fatto che pochi mesi dopo, nel 1901 venne eletto presidente del comizio promosso dalla CdL di Milano a favore dei muratori in sciopero. E il 7 luglio, a Milano, in un comizio di protesta contro l’eccidio di Berra L. manifestò pubblicamente e con un linguaggio violento il suo dissenso dalla linea turatiana, denunciando i pericoli dell’“affinismo,” del parlamentarismo e del ministerialismo. L’anno successivo, nel congresso di Imola L. pubblicò un opuscolo, La necessità della politica socialista in Italia, in cui chiariva la propria linea politica all’interno del partito e criticava più o meno duramente le posizioni di Turati. Questo opuscolo rimase la base per tutti gli anni successivi, della politica del vecchio operaista e la giustificazione teorica della sua intransigenza. Per L. infatti si poteva giungere al socialismo solo attraverso una “rivoluzione meditata e cosciente, da non confondersi con i colpi di mano o i colpi di testa del rivoluzionarismo empirico convenzionale”, che implicava necessariamente una “battaglia profonda e continua, sorretta da una inflessibile politica di guerra” nei confronti della borghesia. Da ciò per L. derivava la necessità della lotta di classe ad oltranza e il rifiuto della lentezza e gradualità del metodo riformista; il non coinvolgimento programmatico nel processo di formazione di una legislazione favorevole al proletariato, poiché essa allontanerebbe la politica dei socialisti “dalla sua vera e specifica azione di guerra antiborghese”; l’intransigenza assoluta nei confronti delle alleanze con i partiti borghesi, ad eccezione di quelle sul piano parlamentare “occasionalmente utili”, l’esclusione della possibilità di votare bilanci o mozioni di fiducia a ministeri della borghesia. In conclusione per L. la politica socialista non doveva essere “una specie di olio dato alla macchina governativa dello Stato borghese per il suo migliore funzionamento, ma una specie di sasso introdotto nei suoi congegni per rendere evidente e necessario l’intervento del fabbro che la può spezzare e ricostruire”. L’opuscolo, dopo questa sventagliata di critiche terminava con un appello, all’unità del partito.

Dopo il congresso di Imola, conclusosi con la vittoria dei riformisti, a Milano si ebbe un avvicinamento tra L. e A. Labriola, sempre più spesso in città, quale direttore del giornale Avanguardia socialista, cui L. collaborava e di cui divenne amministratore nel 1903. Frutto di questo avvicinamento fu anche la costituzione del Comitato d’azione socialista economica, fondato da L. insieme ai più autorevoli membri del gruppo “operaista” milanese, fra cui Cattaneo e Suzzani;  ne erano esclusi gli intellettuali di Avanguardia socialista, che pure ne erano in parte gli ispiratori. Essenzialmente lo scopo del comitato era stimolare una maggior fusione tra movimento rivendicativo e istanza politica e promuovere una maggiore compenetrazione tra l’azione del sindacato e l’azione del partito.

Nel 1903 L. entrò a far parte, come delegato dell’unione impiegati, del consiglio generale della CdL, allora in mano ai riformisti. Nello stesso anno, in seguito al fallimento dello sciopero dei ferrovieri delle linee Nord di Milano, abbandonati a se stessi dai riformisti, ebbe modo di biasimare pubblicamente, a nome del comitato, l’operato della CdL e ribadire che era necessario “ritornare ai principi della lotta di classe e non dei vieti opportunismi e di piccoli miglioramenti immediati”, trascinando con se gran parte della base operaia milanese.

Nel 1904 L. partecipò al congresso regionale lombardo, tenutosi a Brescia, dove diede il suo appoggio alle posizioni intransigenti di Mocchi, e al congresso nazionale di Bologna, in cui criticò l’operato dei riformisti, si pronunciò ovviamente, contro ogni tipo di collaborazione governativa e diede, insieme a Labriola, il suo appoggio a Ferri.

Durante lo sciopero generale del settembre 1904 nel discorso tenuto all’Arena L. lanciò la parola d’ordine della continuazione dello sciopero generale sino alla caduta del ministero. Sempre nel 1904si presentò candidato alle elezioni politiche nel I collegio di Milano, ad Affori a Crema e a Novara senza riuscire eletto.

Negli anni successivi L. non si discostò di molto, e spesso affatto dalla linea ideologica e dal metodo di azione politica precedentemente illustrati. Continuò a chiamare i principi rivoluzionari del 1892, a proseguire nell’opera di organizzazione della base e a tenere conferenze in svariate località d’Italia. In questi anni venne sempre rieletto membro della commissione esecutiva della federazione socialista milanese. Si possono citare alcuni avvenimenti di maggior rilievo quali la nomina a membro del Segretariato nazionale della resistenza nel marzo 1906; la sconfitta subita nelle elezioni politiche suppletive del 1906, quando si presentò come candidato di parte sindacalista, insieme a Labriola, contro le candidature Treves e Turati; la nuova sconfitta alle elezioni politiche del 1909 come candidato nel collegio di Novara; la fondazione insieme a Corridoni del circolo “antireligioso” Giordano Bruno, a Milano nel giugno 1907; il breve periodo di corrispondente da Milano dell’Avanti!

Nei congressi nazionali del partito, a Roma nel 1906, fece confluire il proprio voto sugli odg dei gruppo dei sindacalisti rivoluzionari; a Firenze nel 1908 fu relatore con Morgari e Modigliani sul tema tattica e programma delle prossime elezioni politiche; a Milano nel 1910 fu relatore con Ciotti sul tema dei rapporti fra gruppo parlamentare e partito.  Ribadì costantemente la condanna del ministerialismo e della politica delle alleanze con i partiti democratici; ritornò ripetutamente sul concetto che la politica del partito, pur esplicando un’azione generale di difesa degli interessi immediati dei lavoratori, doveva essere volta a “combattere il funzionamento e l’incremento delle istituzioni politiche ed economiche”.

Nel maggio 1911, in risposta alla famosa frase di Giolitti: “Carlo Marx è stato mandato in soffitta”, uscì a Roma il periodico La soffitta, organo della “frazione rivoluzionaria intransigente del partito socialista”; ne erano direttori L. e G. Lerda. Il giornale cessò le pubblicazioni all’indomani del congresso di Reggio Emilia, nel luglio 1912. Esso infatti rappresentò politicamente il punto di riferimento e di raccolta delle forze della corrente rivoluzionaria intransigente, che subito dopo il congresso di Milano, già si era data un Comitato centrale, con funzioni di coordinamento, composto da Ciccotti, Lerda, Vela, mantica; Musatti e Zerbini.

Nonostante i propositi di rivalutazione del marxismo e il tentativo di ricerca sul piano ideologico di una piattaforma programmatica atta a coagulare le forze di sinistra, mancò alla Soffitta un dibattito di idee vero e proprio. Si ripetè con insistenza il ritornello di L. del ritorno al programma di Genova, si insisté sulla politica di chiusura nei confronti del governo borghese, si richiamò il proletariato al “lavoro per la propria elevazione ed educazione”. Indicazioni dunque di estrema genericità.  Del resto L., esponente allora più prestigioso della corrente, in un opuscolo di larga diffusione apparso nei primi mesi del 1911, I principi e i metodi del partito socialista italiano, rianalizzava il programma di Genova, senza aggiungere alcunchè  di nuovo a quanto era andato dicendo negli anni precedenti e solo accentuando la polemica antiriformista. La riaffermazione intransigente del principio classista in ogni campo, economico, politico, le lotte economiche viste come arma di sgretolamento dello Stato e del modo di produzione borghese, il rifiuto di ogni collaborazione con le forze borghesi avrebbero dovuto essere i mezzi necessari e sufficienti per assicurare il trionfo del socialismo. Con questi pesanti limiti ideologici L. starà alla segreteria del partito per sette anni dal 1912 al 1919.

Di fronte alla guerra libica l’opposizione di L., e quindi della Soffitta, è netta, immediata e senza tentennamenti; egli svolse pure, unitamente al suo gruppo e in assenza di iniziative ufficiali promosse dalla direzione del partito, un’azione di stimolo e coordinamento delle manifestazioni di protesta antimilitarista espresse dalla base. Ma dell’opposizione alla guerra libica L. stesso, più che uno strumento di lotta contro il capitalismo borghese e il nazionalismo imperialista, farà un’arma contro i riformisti coinvolgendo nella responsabilità per la guerra “quella politica socialista che da dieci anni, invece di compiere la sua funzione di corrosione e di lotta contro tutto il meccanismo delle istituzioni borghesi, aveva fornito e secondato tutte le combinazioni e le trasformazioni ministeriali.

Dopo il Congresso di Reggio Emilia, che vide la sconfitta dei riformisti, L. fu nominato segretario politico del partito. Uno dei suoi primi atti fu quello di offrire la direzione dell’Avanti”, cioè dello strumento più idoneo a formare l’opinione del partito e a dirigerlo, a un uomo ormai fuori dalle file del partito e che si autodefiniva “più riformista dei riformisti”. G. Salvemini, con una ingenuità, una buona fede e un’immaturità politica evidenti. Nella ricerca per l’uomo nuovo, che avrebbe dovuto dare maggiore slancio alla corrente, da insediare alla direzione del giornale la scelta cadde, dopo un breve periodo di direzione di G. Bacci, su B. Mussolini; e la scelta fu opera di L., che affascinato dall’entusiasmante oratoria di Mussolini, vide in lui il simbolo del proletario ribelle, passionale e classista. La disillusione fu molto amara.

L. affrontò il pesante compito della direzione del partito basandosi pressochè esclusivamente sul dogma dell’intransigenza e sull’appoggio alle lotte economiche della base, inserite nell’ottica dianzi illustrata. La sua intransigenza giunse fino al punto di vietare, nel congresso di ancona del 1914, le intese elettorali con i sindacati aderenti alla CGdL. Vi fu in L. un’attesa quasi fatalistica dell’inevitabile disgregazione del regime politico della borghesia e una fede messianica nell’altrettanto inevitabile avvento del socialismo.  Gli fu dunque sostanzialmente estraneo il problema sul come influire sugli avvenimenti, di come agire nel momento della dissoluzione dello Stato borghese. Nonostante l’immobilismo della politica di L., il partito sotto la sua direzione ebbe un grosso incremento numerico.

Allo scoppio della prima guerra mondiale l’atteggiamento di L. fu di netta opposizione ad ogni partecipazione alla stessa e quindi di durissima condanna di ogni interventismo. Nel 1914 sostituì insieme a Bacci e Serrati, Mussolini alla direzione dell’Avanti!. Nel novembre L. stese e pronunciò l’atto di accusa contro Mussolini, espulso di conseguenza dal partito, in cui ne evidenziava l’indegnità politica e morale.

Negli articoli scritti per l’Avanti! Delineò l’atteggiamento suo e della direzione del partito in caso di mobilitazione militare: neutralità e tranquillità del partito per la guerra difensiva; opposizione e resistenza per una guerra offensiva. Nel maggio del 1915, a Bologna, nella riunione congiunta della direzione del partito, del gruppo parlamentare e dei responsabili della CGdL, L. coniò la formula “ne aderire, ne sabotare”, in polemica con Serrati propenso ad un atteggiamento più deciso e combattivo. In effetti la formula di L., e l’interpretazione di assoggettamento agli eventi e di rassegnazione che egli stesso ne dava, significarono passività sul piano politico.

Nel corso della guerra L. si adoperò per l’unità del partito e per l’equilibrio delle tendenze, pronunciandosi contro “l’insurrezionalismo” e condannando i cedimenti patriottici dei riformisti, da Turati a Rigola. Fu tra i promotori e fece parte del comitato esecutivo della Lega dei comuni socialisti. In campo internazionale partecipò ai convegni di Zimmerwald, dove si accostò alle posizioni della sinistra e di Kienthal, dove si schierò con la maggioranza di centro.

In seguito al decreto sacchi L. fu arrestato e condannato per propaganda disfattista. Rimase in carcere dal febbraio al novembre 1918. Nelle elezioni del 1919 fu eletto deputato nei collegi di Milano e Cremona; nel 1921 fu rieletto a Milano, Pavia e Cremona e mantenne la carica fino al 1916. Nel 1920 nelle elezioni amministrative di Roma fu eletto consigliere comunale.

Al congresso di Bologna L si espresse a favore della rivoluzione, ma da realizzarsi con la sola arma dell’intransigenza con l’esclusione della violenza pregiudizialmente premeditata e programmata; sulla mozione di L. confluirono i voti dei riformisti. L’esperienza della rivoluzione bolscevica non modificò affatto le precedenti convinzioni di L. ; infatti la sua adesione al movimento russo si limitò ad una solidarietà puramente morale , poggiante su una generica identità di aspirazioni socialiste: essa non lo portò a prospettare il ruolo concreto che il proletariato italiano avrebbe potuto svolgere in difesa del proletariato russo, ne lo stimolò all’analisi delle nuove possibilità che gli avvenimenti russi offrivano alla lotta rivoluzionaria in Italia, non lo indusse infine ad una revisione critica della validità della sua precedente linea politica. Questi i limiti anche del terzinternazionalismo di L. Già al congresso di Livorno egli era confluito col proprio voto nella mozione massimalista e aveva rimproverato agli oratori dell’Ordine nuovo di intellettualismo e aridità del sentimento. Dopo il viaggio a Mosca, del giugno 1921, per perorare l’accettazione dell’adesione del PSI alla III Internazionale e i colloqui avuti con Lenin, L. si convinse della necessità dell’espulsione dei riformisti dal partito, ma non dell’avvicinamento alla linea dei comunisti e tanto meno della fusione col PCI. Nel congresso di Milano dell’ottobre 1921 la mozione di L. per l’accettazione delle condizioni di adesione alla III Internazionale rimane di schiacciante minoranza. Avvenuta infine l’espulsione dei riformisti nel congresso di Roma del 1922, al congresso di Milano dell’aprile 1923 L. si dimostrò incerto e tentennante sulla questione della fusione con il PCI soprattutto per non abbandonare il vecchio e glorioso nome socialista. Nel 1924 anno della fusione dei terzini col PCI, rimase definitivamente nel campo massimalista, pur non cessando di perorare l’adesione del PSI all’Internazionale comunista.

Ancora nel 1926 faceva parte della direzione dell’Unione socialista romana e subiva un’ennesima aggressione fascista negli stessi locali di Montecitorio. Nel luglio 1927 venne arrestato un’ultima volta per tentato espatrio clandestino ma fu rilasciato dopo poche settimane. Morì in grandi ristrettezze economiche il 29 dicembre 1927.

Fonti:

Il movimento operaio italiano, vol. 3, pag. 71-83